L’accusa: «Impatto devastante dovuto all’inquinamento». In aula — all’Alta Corte di Londra — non ci andranno tutti, l a lista dei querelanti è lunghissima: 13.652, gli abitanti di due piccole comunità sul delta del Niger; i quasi 12 mila di Ogale e gli oltre 2 mila di Bille, per lo più piccoli agricoltori e pescatori. Singoli cittadini ma anche 17 istituzioni, tra chiese e perfino scuole, hanno messo la propria firma contro il colosso petrolifero Shell con la richiesta di ripulire l’ambiente dall’inquinamento che li avvelena da anni (qui il dossier di Amnesty International) , oltre naturalmente a quella di ripagare i danni enormi al territorio. «La nostra capacità di coltivare e pescare è stata distrutta dalle continue fuoriuscite di petrolio dovute all’attività della Shell», sostengono.
Sedici minorenni hanno fatto causa al Montana per l’uso di petrolio. E i 13 mila abitanti di due villaggi del Niger portano in giudizio a Londra la Shell per inquinamento. Oltre le proteste, i processi: in tutto il mondo monta l’onda “legale”. E in Italia continua la causa Giudizio Universale
La multinazionale, proprio mentre in questi giorni festeggia il record assoluto di profitti da 40 miliardi di euro (in 115 anni di storia) , respinge ogni rivendicazione, convinta di non dover nulla ai nigeriani, né il ripristino dell’ambiente né il risarcimento per eventi precedenti alle richieste. Se la vedranno in aula in primavera per una prima udienza: la Corte londinese ha dichiarato il processo “buono e da discutere” . Ma se “Ogale e Bille contro Shell” è un caso esemplare — Davide contro Golia colpisce sempre l’immaginazione, soprattutto se Golia si è appena riempito le tasche di denaro come mai in precedenza —, in realtà il 2023 sembra essere l’anno in cui il clima invade le aule dei tribunali di mezzo mondo . Non solo per chiamare a rispondere colossi di petrolio e gas, come in questo caso.
S&P ha anche inserito, fra le nove tendenze dell’anno appena iniziato, al punto 2, il “rischio di controversie legali legate alle (in)azioni di sostenibilità”. Quando la parola passa agli avvocati, il salto di qualità non può essere ignorato. E se può rivelarsi prova di vitalità di un sistema in cerca di equilibrio, di certo la discesa in campo di squadre agguerrite di legali è un indicatore inequivocabile del crescere esponenziale della divaricazione di intenti. E non è un buon indicatore. Un anno esatto fa, su queste pagine, Francesco Battistini già registrava come le Climate litigaton , le cause climatiche, si stessero moltiplicando, passando dalle ottocento totali del periodo 1986-2014 alle 3mila dei 7 anni successivi.
«Dal Belgio alla Nuova Zelanda (ma ci si è svegliati anche in Italia)», raccontava, «agiscono contro chi trivella, depreda le miniere, deformata, obbedisce alle lobby, o semplicemente non fa nulla». Ora una ricerca dello studio legale multinazionale Norton Rose Fulbright (uno dei 10 più grandi al mondo) realizzato fra 430 avvocati interni alle aziende , registra che il 28 per cento di loro vede la propria esposizione alle controversie legate all’applicazione dei criteri Esg (i fattori ambientali, sociali e di governance relativi alla sostenibilità) di molto cresciuta nel 2022 .
Per il 24 per cento aumenterà ancora quest’anno. Contro il greenwashing Nei Paesi anglosassoni ciò si traduce in primo luogo nella possibilità di class action, di azioni promosse da gruppi di persone titolari di un diritto (la California fa da apripista). Nel mirino, come sottolinea la ricerca di NRF, è in primo luogo il greenwashing : l’accusa rivolta alle aziende di voler indurre l’opinione pubblica a credere che un marchio sia impegnato nella tutela dell’ambiente molto più di quanto sia in realtà . «I nostri clienti», ha spiegato Rachel Roosth, legale della law firm, ramo contenzioso, «sentono la pressione di consumatori, azionisti e regolatori ad aumentare gli impegni Esg. Le cause arrivano se questi impegni sono percepiti come falsi, insufficienti e fuorvianti».
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Per la verità queste cause non stanno arrivando - ancora - a grandi risultati. Ma la marea sale. E salirà sempre più. Anche in Italia: Filippo Chiaves, Enrica Ferrero e Pietro Orlandi, dello studio Hogan Lovells, segnalano un paio di casi “contigui”: l’ingiunzione del Tribunale di Gorizia a un’azienda tessile di cessare la commercializzazione di prodotti in microfibra presentati in modo ingannevole come riciclabili al 100 per cento e in grado di ridurre le emissioni di CO2 dell’8o per cento, e la multa di 5 milioni applicata dall’Autorità Garante della Concorrenza a una multinazionale leader nel settore energetico per aver tentato di presentare i propri biocarburanti come ecologici.
«E sebbene in Italia non sia stato ancora instaurato alcun contenzioso in ambito finanziario riconducibile al greenwashing », scrivono su DirittoBancario.it, «c’è da attendersi l’emergere di un numero crescente di giudizi in materia» (ndr. mentre prosegue l’iter della causa Giudizio Universale, di cui vi abbiamo parlato su Pianeta 2030: una pietra miliare per l’ambientalismo nel Belpaese). Insomma, non ci sono solo le azioni di Ultima Generazione e il loro imbrattamento (con vernice lavabile, va sottolineato) del “Dito” dell’artista Maurizio Cattelan davanti alla Borsa a Milano o della facciata del Senato a Roma, a confermare che il clima sta facendo salire la temperatura della conflittualità. Piuttosto, il passaggio dalla protesta di piazza alle aule di tribunale ha una valenza contraddittoria: conferma la fiducia nella giustizia ma al tempo stesso la considera un’ultima spiaggia . C’è un altro aspetto da considerare: l’atteso aumento dei contenziosi contro le aziende non è solo relativo a ciò che queste hanno fatto finta di fare.
Uno sversamento di petrolio nel fiume Yellowstone, in Montana, nell’estate 2011: sotto accusa, in quell’occasione, era finito un oleodotto del colosso ExxonMobil (Ap)
Il primo processo climatico dei bambini
Una parte delle controversie sarà rivolta a stanare un fenomeno complementare in crescita: il greenhushing (da to hush, stare zitto) l’atteggiamento delle aziende che, pur avendo un obiettivo “climatico”, si astengono dal divulgare i dettagli delle pratiche di sostenibilità nel timore di essere penalizzate proprio per le informazioni sui traguardi a cui si sono impegnati, giudicati troppo teneri. Un “silenzio verde” che assomiglia sempre di più all’omertà . A rivelare la tensione montante basta un ulteriore esempio: pochi giorni fa un centinaio di giovani ha riempito l’aula del tribunale di Honolulu per sostenere i coetanei che hanno portato in giudizio il Dipartimento dei Trasporti delle Hawaii accusandolo di perpetuare un sistema che emette alti livelli di gas serra , violando i diritti costituzionali e incidendo sulla capacità di «vivere una vita sana ora e in futuro». Una causa definita storica prima di iniziare. Quasi quanto quella che si aprirà il 12 giugno in Montana , iniziata da 16 querelanti fra i due e i 18 anni che chiedono la condanna dello Stato per l’uso di petrolio e gas che, sostengono, ha contribuito alla crisi climatica e provocato danni a loro personalmente (ndr. qui un articolo di Scientific American che spiega il prologo e i particolari della causa). È il primo processo climatico per bambini della Storia degli Stati Uniti: potrebbe spianare la strada a una valanga di altri contenziosi.