Era il 6 febbraio 1993: il mondo perdeva un fuoriclasse della racchetta e di umanità: la sua storia e la sua eredità
Cadeva di sabato quel 6 febbraio 1993, il giorno in cui Arthur Ashe moriva a causa di una polmonite legata all’AIDS, sindrome verosimilmente contratta dalla trasfusione di sangue ricevuta durante l’intervento di bypass aortocoronarico del 1983. Erano passati otto anni dal suo terzo e ultimo successo Slam, dopo lo US Open 1968 e l’Australian Open 1970. La vittoria a Wimbledon fu un po’ il suo capolavoro sportivo, battendo in quattro set in finale un Jimmy Connors largamente favorito e di nove anni più giovane.
Ashe è nato il 10 luglio 1943 a Richmond, in Virginia, uno di quei posti in cui doveva andare nelle scuole per i neri, prendere i bus per i neri; un posto, ha scritto nel 2021 l’assessorato alla salute della città, dove “il razzismo sistemico ha avuto un costo enorme sulla salute dei cittadini Neri per generazioni”. L’ha avuto per esempio sulla salute di Emmett Till, quattordicenne afroamericano torturato e assassinato per aver rivolto la parola a una donna bianca. Era il 1955 e Arthur trasferiva sul campo da tennis l’atteggiamento della vita di tutti i giorni: le parole d’ordine erano prudenza, stare sulla difensiva, pensare prima di tutto a tenerlo in vita – il punto o il proprio corpo. “Nel Sud, se sei nero e fai le cose troppo in fretta, la tua vita potrebbe essere in pericolo” avrebbe detto anni dopo ripensando all’omicidio di Emmett.
Una svolta drastica nella carriera e nella vita di Arthur arrivò nel 1960, quando si trasferì a St. Louis per l’ultimo anno di superiori sotto la spinta di suo padre e del suo coach e mentore Robert Walter Johnson. Una “spinta” motivata anche, se non soprattutto, dal fargli ottenere una borsa di studio universitaria per il tennis. Per questo c’era bisogno, come ha scritto il suo biografo Raymond Arsenault, “di allenamento professionale e tornei ai più alti livelli” per periodi prolungati, condizioni irrealizzabili nella Richmond della segregazione razziale che gli precludeva l’uso dei campi coperti. Il suo tennis si fece offensivo, migliorò il servizio che seguiva a rete e il dritto, vinse tra gli altri i Campionati Juniores Indoor e fu il primo afroamericano a ottenere una borsa di studio per la UCLA.
Un altro anno importante fu il 1968, quello che ha segnato l’inizio dell’Era Open. Ashe non era come Muhammad Ali, privato dei titoli per la sua opposizione alla guerra del Vietnam e il rifiuto di andare a combattere, o Kareem Abdul-Jabbar che boicottò le Olimpiadi per “l’inutilità di vincere l’oro per il proprio Paese e poi tornarci per vivere sotto l’oppressione”. Tuttavia, come la tragedia dell’adolescente Emmett, un forte impatto su Ashe lo ebbero quell’anno gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy che lo spinsero definitivamente a far sentire la propria voce. “Altri atleti di colore usavano la loro influenza e il loro potere per prese di posizione politiche” ha spiegato nel documentario Citizen Ashe. “A un certo punto mi sono detto, Arthur, non puoi rimanere in disparte mentre succede tutto questo, devi fare qualcosa”. Un percorso di attivismo lento, complicato, quello di Ashe, ben diverso dalle prese di posizione tranchant a cui siamo avvezzi oggi. Ma anche allora, con Billie Jean King che avrebbe detto, “Cristo, sono più nera di Athur”. Troppo bianco per i neri e troppo nero…?
Dopo aver ricevuto l’Arthur Ashe Humanitarian Award 2020, Frances Tiafoe ha scritto: “Nulla di ciò che hai fatto era per te stesso. Hai semplicemente cercato di essere prima una persona e poi un atleta. Riguardava sempre l’aiutare gli altri, questo è di grande ispirazione”.
Nel suo sostegno ai diritti civili, Ashe ha spesso parlato in favore della lotta di Nelson Mandela contro l’apartheid. Anche se non furono in molti a comprendere come la sua presenza potesse essere di aiuto alla causa, ha anche giocato a Johannesburg esigendo “spalti non segregati per i suoi match, libertà di andare dove vuole e quando vuole, ammissione non vincolata a uno status di bianco onorario”. Era il 1973, ricevette anche una lettera di ringraziamento da parte di Winnie Mandela per essere lì (ricordandogli però che “la cosa migliore che puoi fare è chiedere ai sudafricani come puoi aiutarli nella lotta”) e per la prima volta il campione statunitense veniva ammesso al torneo – una delle condizione dettate dall’ITF per evitare al Sudafrica un secondo anno di sospensione dalla Coppa Davis, sanzione a cui Ashe aveva contribuito in modo determinante. Il suo impegno gli è costato anche due arresti a Washington, nel 1985 durante la manifestazione davanti all’ambasciata sudafricana e nel 1992 per le proteste contro l’inasprimento delle politiche di accoglienza dei rifugiati haitiani. E, forse, il ruolo da capitano di Coppa Davis. Perché non esiste “la via di mezzo”: se non parli, sei criticato per l’assenza di impegno; se parli, sei criticato perché devi pensare solo al tennis.
“Una delle cose più folli che ti riguardano” ha scritto ancora Tiafoe, “è che tutti sanno del lavoro che hai fatto per rendere il mondo un posto migliore. Ma hai vinto degli Slam, fratello!”.
Nel 1973, quando perse la finale in Sudafrica contro Connors, ne aveva già vinti due. Proprio contro Jimbo, dicevamo all’inizio, giocò la finale di Wimbledon nel 1975, alla quale il classe 1952 arrivava con un percorso immacolato, mentre Ashe aveva lasciato qualche set per strada – due in semifinale contro Tony Roche. Quel Connors così diverso dal sempre gentile ed educato Ashe, quel Connors che Arthur aveva criticato perché non aveva aderito alla neonata ATP. E che gli aveva fatto causa per tre milioni di dollari perché lo aveva definito “antipatriota” a causa del rifiuto della convocazione in Coppa Davis. 6-1 6-1 5-7 6-4 fu il punteggio in Church Road a favore del primo tennista di colore a vincere Wimbledon.
Ashe ha giocato diverse volte anche in Italia, a Roma, Bologna, Milano e Firenze. Nel capoluogo toscano arrivò nel 1979 accogliendo l’invito del direttore del torneo, Ubaldo Scanagatta. La scintilla fu la mostra organizzata all’hotel Excelsior delle foto della signora Ashe, che non aveva saputo resistere all’affascinante richiamo della città.
Nel 1988 la diagnosi dell’HIV che ne causò la scomparsa cinque anni più tardi. Fu però solo poco prima dell’annuncio della malattia, nel 1992, che fondò la Arthur Ashe Foundation for the Defeat of AIDS e iniziò a organizzare eventi per raccogliere fondi, richiedere al governo di stanziare risorse per la ricerca e per informare ed educare le persone sull’argomento. Come le sue precedenti battaglie, anche in quel caso l’attivismo era maturato lentamente. Ma è sempre sbocciato, come naturale conseguenza del voler aiutare il prossimo. E perché, se nella città in cui la statua di quel generale che difendeva (anche) il diritto a ridurre persone in schiavitù ti appassioni a uno “sport per bianchi” che ti porterà inevitabilmente a essere il primo ad affrontare certe situazioni, buona parte della tua storia è scritta in anticipo.
ATP Montpellier: Luca Nardi batte Paire al terzo set e accede al tabellone principale
WTA Abu Dhabi: Ostapenko grande vittoria su Collins. Fernandez supera le qualificazioni
Un tempo considerato un colpo di ripiego per le situazioni disperate, oggi il dritto in slice viene visto come un’arma interessante per il tennista. Coco Gauff e Carlos Alcaraz tra i tennisti che lo utilizzano
Di Stuart Miller, New York Times, 29 ottobre 2022
In linea generale il tennista gioca il rovescio in tre modi – in topspin, piatto o in slice. Invece, nel tennis moderno, le modalità di gioco del dritto sono limitate alle prime due tipologie. Spesso interpellato per eseguire un drop-shot, lo slice di dritto – dove si fa scivolare la racchetta sotto la palla per creare un back-spin, o dove si taglia la palla lateralmente (da sinistra a destra, o viceversa) per generare uno spin laterale – ha goduto per diverso tempo di una cattiva reputazione ed è stato visto un colpo di ripiego a cui ricorrere in situazioni estreme.
Oggi, anche se tanti giocatori ancora lo disdegnano, lo slice di dritto sta ricominciando a guadagnarsi un po’ di rispetto, perché se sfruttato in maniera strategica, può dare un vantaggio considerevole. “Solo una manciata di tennisti lo utilizza in maniera tattica e lo esegue correttamente”, spiega Madison Keys, tennista No. 11 al mondo, la quale confessa di non aver allenato molto questo colpo.
Pam Shriver, ex Top 10 e ora commentatrice dell’emittente ESPN, ha invece sfruttato ampiamente lo slice di dritto nella sua carriera e vorrebbe che più giocatori lo prendessero sul serio. “Ora è diventato un importante colpo di tocco da includere nel proprio armamentario”, spiega Shriver, aggiungendo che è particolarmente efficace sulle superfici veloci che generano un rimbalzo di palla basso, come i campi indoor del Dickies Arena a Fort Worth, che ha ospitato le WTA Finals. Lo slice è infatti meno efficace sulla terra.
Lo slice viene soprattutto impiegato in difesa, quando il tennista è spinto fuori dal campo lateralmente, ma Shriver fa notare che può anche essere usato per spezzare il ritmo all’avversario e abbassare la traiettoria della palla, in particolare su un colpo di approccio a rete. “Serena Williams ha aperto la strada a una generazione di giocatori molto dinamici e potenti, ma ora la new generation sta diventando più creativa”, racconta Wim Fissette coach che ha lavorato con diverse No. 1, come Simona Halep e Naomi Osaka. “E‘ una tendenza che è iniziata nel tennis maschile, ma ora sta arrivando a quello femminile. Contro tutti questi colpi potenti bisogna trovare delle strategie per difendersi: servono soluzioni creative.”
Lui, come tanti altri, attribuisce il merito del ritorno dello slice nel tennis moderno (si vedano Coco Gauff, Ons Jabeur e Carlos Alcaraz) a Roger Federer e a quei suoi colpi da squash, sfoggiati occasionalmente, dove choppava la palla verso il basso per generare una traiettoria bassa, con un’alta rotazione e un’alta velocità. “Se rimani sulla linea di fondo a giocare solo colpi potenti, costringi sicuramente il tuo avversario a correre, ma solamente a sinistra e a destra”, spiega Fissette. “Federer ha cominciato a usare lo slice proprio per far avanzare il suo avversario dentro il campo, attirandolo su un terreno dove era meno a suo agio. Il dritto in slice è un modo di spezzare il ritmo all’avversario e ingrandirsi il campo.”
Inoltre, Wim fa notare che quando il tennista “non sta riuscendo a seguire il suo piano di gioco “A”, gli serve un piano “B””, ed è qui che usare lo slice difensivo può aiutare a riaprire la partita”. Ancora oggi sono in tanti a ricorrere a malincuore al dritto in slice, usandolo solo quando vengono spinti lateralmente fuori dal campo; ma Shriver fa notare che colpire in open-stance, magari arrivando a colpire in scivolata anche su campi veloci, permette al giocatore di estendersi ancora di più verso i lati del campo e di colpire con uno slice anche quando non riuscirebbe a posizionarsi correttamente per eseguire un colpo piatto, o in top-spin.
“Sempre più tennisti usano lo slice di dritto, ma come colpo difensivo,” dice la N° 8 della graduatoria WTA Daria Kasatkina che, come Keys, tende a allenarlo poco. Kasatkina dice di non sfruttarlo in maniera tattica nello scambio, ma solo quando è costretta a un gioco difensivo da una palla potente. Keys racconta di averlo usato solo quando era in svantaggio ed era “assolutamente necessario” farlo.
Anche la N°1 al mondo Iga Swiatek, che possiede una varietà di colpi considerevole, conferma che questo tipo di dritto “è in grado di resettare uno scambio“, ma che per lei non è mai stato prioritario. “Lo uso solo quando non riesco a giocare altri colpi”.
Fissette, coach che ha lavorato con Halep e Osaka, ritiene che sia valsa la pena allenare quel tipo di dritto in corsa, perché capace di allungare lo scambio, obbligando gli avversari che non si sentono sicuri a rete a rispondere con colpi bassi, tesi, radenti le linee – aumentando così il rischio di errori. Ci conferma che Swiatek tende ad usare il colpo in maniera difensiva, ma aggiunge che, similmente a Gauff, a causa dell’impugnatura utilizzata, Swiatek potrebbe trovare difficile colpire di dritto delle palle basse e tese, soprattutto in avanzamento, e che lo slice potrebbe tornarle comodo in queste situazioni.
“Lo slice andrebbe allenato anche per imparare a difendersi da questi colpi eseguiti con lo spin,” dichiara Shriver, ex tennista e commentatrice, che cita Ons Jabeur come esempio di un’atleta che sfrutta bene lo slice sia in difesa che in attacco. Shriver e Fissette lo definiscono il colpo ideale da usare sul dritto dell’avversario, perchè tiene bassa la traiettoria della palla e permette a chi attacca di colpire mentre attraversa la palla, accelerando la propria discesa a rete. “Karolina Pliskova ha un eccellente slice di approccio lungo-linea”, aggiunge Fissette. “Mi piacerebbe vederlo usare di più nel tennis femminile.”
Secondo Fissette – vista la scarsa sicurezza a rete delle tenniste WTA, rispetto ai colleghi del tour maschile – lo slice rappresenterebbe un’arma efficace nelle mani della tennista, per aprirsi il campo e invogliare l’avversaria a eseguire complesse e rischiose palle corte.
“Vale davvero la pena provarlo sul dritto dell’avversario“, dice Shriver. “Se giochi una palla choppata sul rovescio dell’avversario, quello potrebbe colpire a sua volta in slice, e tu non ne trarresti alcun vantaggio. Invece sappiamo che bisogna evitare di giocare una palla attaccabile sul dritto dell’avversario; un colpo con una traiettoria bassa, come lo slice, risulta più complicato da gestire per la maggioranza dei tennisti”.
“In più, lo slice, oltre all’under-spin, spesso ha anche un po’ di rotazione laterale che rende ancora più complessa la gestione della palla per l’avversario”, conclude Shriver. Nè Shriver, né Fissette ritengono che questo colpo possa, o debba, diffondersi quanto il back di rovescio. “Devi scegliere la palla su cui eseguirlo e il momento giusto,” dice Fissette.
Giocare il back di rovescio viene più naturale, secondo Shriver, e “può diventare un bel pasticcio” se il tennista non trova la sensibilità sulla palla per giocare il dritto in slice. In più, il continuo cambio dell’impugnatura in un senso e nell’altro rischia di influenzare il tempo sulla palla del tennista. Ciononostante, “sarà anche un terno al lotto, ma può davvero valerne la pena,” dice. “Lo slice di dritto rende il tennis più divertente da guardare.”
Zverev ancora in fase di ripresa,batte Kwon e trova Griekspoor al secondo turno; Huesler eliminato da un altro olandese
[5] H. Hurkacz b. R. Bautista Agut 7-5 6-7(7) 7-6(4) (Danilo Gori)
Ci sono volute tre ore di gioco, un long set e due tie-break perché Hubert Hurkacz battesse per la prima volta nella carriera Roberto Bautista Agut, dopo tre sconfitte e un parziale di quattro a zero nei tie-break. I due hanno animato un match di attacchi e salvataggi, di corsa e di ricerca del varco giusto per il colpo decisivo. Solo piccoli passaggi a vuoto hanno rotto l’equilibrio nelle tre frazioni, e il polacco è stato bravo a ricomporsi psicologicamente dopo le occasioni sciupate nel secondo set. Il prossimo ostacolo per lui sarà il bulgaro Grigor Dimitrov.
Nella prima frazione si assiste a scambi con affondi e recuperi al limite da entrambe le parti; il diritto di Hurcakz cammina di più, ma Bautista rimanda con pazienza e allunga gli scambi, sapendo di essere più attrezzato nei punti “in apnea”.
Solo due dei primi undici game vanno ai vantaggi, il terzo e il sesto. Nel dodicesimo cambia tutto, e il polacco si prende il break alla terza occasione. Per lui nove ace e 82% di conversione sulla prima (e 78 sulla seconda) e 21 colpi vincenti.
Nel secondo set il tema non cambia, ma al secondo gioco Bautista deve fronteggiare due palle-break consecutive. Le manca, e nel gioco successivo commette qualche errore, soprattutto un rovescio slice a una mano nei pressi del net sul 15-30, e per la prima volta cede la battuta. Il vantaggio dell’iberico dura poco, perché alcune sue imprecisioni rimettono in gara il polacco: 2-2.
Da qui in poi il giocatore al servizio ritrova il comando degli scambi e si giunge al tie-break, che nei quattro precedenti tra i due rivali ha come detto sempre visto vincere lo spagnolo. Il quinto parte in modo diverso: complici due errori non forzati di rovescio, uno in rete e uno lungo, Hurkacz si aggiudica i primi quattro punti. A questo punto serve un doppio fallo; Bautista, indomito, tiene i due punti al servizio cercando senza sosta una breccia nelle difese della testa di serie numero cinque del seeding.
Sul quattro a tre Hurkacz non trova le prime, ma segue a rete due volte la seconda e gioca altrettante sorprendenti volée, che lo portano a giocarsi tre palle della partita. Bautista cerca egli stesso la rete e ne cancella due, per poi avere la meglio nello scambio successivo con un rovescio lungolinea. Sfruttando il momento-no del rivale con la prima, lo spagnolo si procura il vantaggio e dopo un’ora e 14 minuti chiude il set giovandosi di un incredibile errore di misura di Hurkacz con lo schiaffo di dritto.
Il terzo set comincia in ritardo con una pausa fisiologica richiesta dal polacco, che vuole ritrovare la migliore concentrazione. E al settimo gioco, alla prima palla-break, centra il break che sembra definitivo, visto il rendimento alla battuta del favorito della vigilia. Ma al decimo gioco tornano le indecisioni che ne hanno zavorrato il rendimento nel tie-break, e Bautista coglie il break-salvezza con un recupero di dritto correndo in avanti che è il punto del match.
Si arriva allo jeu decisif, e i primi due punti sono del trentaquattrenne di Castellon de la Plana. A questo punto Hurkacz si ribella e scrive un parziale di sei punti a zero, con l’aiuto-chiave di due ace. Al terzo matchpoint, e sesto complessivo, chiude ancora con un asso, il ventiseiesimo in totale.
GLI ALTRI INCONTRI – Alexander Zverev ha battuto al primo turno del torneo ATP 500 di Rotterdam Soon-woo Kwon 6-4 7-6. Il tedesco testa di serie numero 8 ha strappato subito il servizio nel primo gioco del match al 25enne sudcoreano per aggiudicarsi con il break di vantaggio un primo set senza problemi. Kwon non ha mollato nel secondo set, portando il numero 17 del mondo fino al tiebreak decisivo dove Zverev si è imposto 7 punti a 4. Buona prestazione al servizio del tedesco che oggi ha scagliato ben 10 ace contro i soli 4 del suo avversario. Ancora indietro però rispetto al livello al quale ci ha abituati negli anni, dimostrazione che la fase di rientro per Zverev non è ancora finita. Avanza al secondo turno anche Tallon Griekspoor dopo aver battuto Mikael Ymer 7-6 7-5. Il 26enne olandese si è aggiudicato il tiebreak del primo set per 9 punti a 7. La partita si è rivelata equilibrata anche da un punto di vista di numeri ma Ymer, dopo aver tenuto dignitosamente il livello, ha concesso un break di vantaggio fatale nel secondo set. Sarà proprio Griekspoor a vedersela con la testa di serie numero 8, Alexander Zverev, al secondo turno del torneo.
Accede al secondo turno del Rotterdam Open anche Gijs Brouwer dopo essersi imposto su Marc-Andrea Huesler 6-3 7-5. L’americano numero 160 del ranking ha sorpreso tutti battendo senza apparenti difficolta lo svizzero numero 47 del mondo. È riuscito a sfruttare due palle break delle cinque chance conquistate, portando a casa l’84% dei punti vinti sulla prima di servizio. Huesler invece ha conquistato solo una chance di palla break in tutto il match, senza riuscire a portarla a casa.
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci
Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
La nostra newsletter, divertente, arriva ogni venerdì ed è scritta con tanta competenza ed ironia. Privacy Policy.
Copyright © UBISPORTING srl | P.IVA 06262320481 Piazza Niccolò Tommaseo 1, 50135 Firenze (FI) Iscritta alla Camera di Commercio di Firenze, capitale sociale di 10.000,00 € i.v.